CHI È TRADUTTORE ALZI LA MANO – LA STORIA DI LORENA DI NOLA
Pubblicato il 10 Settembre 2015 alle 16:47 0 Commenti
Chi è traduttore alzi la mano – Storie di una professione.
Dai presepi ai selfie: il mio percorso nella traduzione | di Lorena di Nola
Non il Mare del Nord e la Scandinavia: nella geografia dei miei ricordi universitari, tra il Regno Unito e la Russia c’era Spaccanapoli. Le lezioni di letteratura inglese si tenevano in un palazzo, un tempo sontuoso, tra i vicoli umidi della Napoli storica. Per studiare Puškin e leggere Tolstoj in lingua, però, bisognava andare nella sede di Via Duomo. Tra le due scorrono Via dei Tribunali e San Gregorio Armeno. Per spostarsi da una sede all’altra e arrivare in tempo a lezione, bisognava affinare le proprie abilità podistiche, imparando a superare le scolaresche in visita, scansare le statuine dei presepi sulle bancarelle senza romperle e resistere agli odori tentatori emanati dalle pizzerie della zona, le più antiche e famose della città. Quasi a proteggere gli studenti chiamati ad applicare tecniche di dribbling così sofisticate, lungo la strada c’era un tabernacolo dedicato a Maradona.
Per evitare corse frenetiche, era fondamentale incastrare le lezioni del piano di studi con la precisione di un appassionato di puzzle, scegliendo i corsi facoltativi anche in base all’orario e alle sedi. Contemplando gli orari dei corsi 2001/2002, ne notai uno di teoria e pratica della traduzione che si incastrava perfettamente tra la lezione di letteratura inglese e quella di grammatica russa. Ed è così, per caso, che ho scoperto la disciplina che mi avrebbe segnato la vita.
Nei corsi di lingue, certo, avevamo fatto tante esercitazioni di traduzione, ma solo quando ho iniziato a frequentare questo corso di traduzione letteraria ho scoperto che era possibile dedicare due ore all’analisi di un solo paragrafo.
Fin dalla prima lezione, la docente ci avvertì: “Questa non è una strada facile”. Ce ne diede anche una dimostrazione pratica, poiché abbandonò il suo ruolo a contratto all’università e le collaborazioni con case editrici per passare a una carriera più stabile in un ambito del tutto diverso. Oltre a perdere il mio principale punto di riferimento, ho perso così anche la relatrice della tesi, completata sotto la guida di altri professori. Si trattava della traduzione e analisi di una raccolta di racconti di un’autrice pietroburghese di mezza età che raccontava il trauma del passaggio dal comunismo alla Russia di oggi. La nostra assistente madrelingua, l’imponente Raisa, pressoché coetanea dell’autrice che stavo traducendo, si era messa a disposizione per chiarire i passaggi più difficili. Restando sola con lei al termine delle lezioni, ho capito in cosa consista davvero l’intraducibilità. Una sera, spiegandomi un termine per cui il dizionario non mi era bastato, notai le lacrime agli occhi dell’austera lettrice di russo: le aveva ricordato una delle tante privazioni subite. Neanche una lunghissima nota a piè di pagina avrebbe mai potuto trasmettere a un lettore italiano le emozioni che quei termini evocavano in lei.
Quando mi sono trovata a cercare una stanza in condivisione a Londra, è stato proprio il lavoro svolto per la tesi a farmi scegliere l’alloggio: sugli scaffali di quella casa vittoriana in quarta zona c’era il libro russo di cui mi ero occupata, che per una bizzarra coincidenza la mia coinquilina aveva letto. Parlando con lei, ho scoperto quanto piacere si provi a poter dire “Quel libro l’ho tradotto”.
Sono passati oltre dieci anni dal mio primo lavoro di traduzione retribuito, assegnatomi da un committente ucraino. Il pagamento fu inviato tramite Moneygram: ancora ricordo l’entusiasmo con cui sventolavo i pochi euro ricevuti in un’agenzia piena di gente che mandava rimesse ai parenti lontani.
Per il lavoro successivo, la traduzione di moduli di consenso informato, decisi di investire il compenso ricevuto in un capo d’abbigliamento, appeso nel mio armadio ancora oggi. Appena lo vedo ripenso ai miei esordi, per poi chiedermi se non è forse arrivato il momento di rinnovare il guardaroba.
Ormai non riesco più ad associare un determinato acquisto al progetto di traduzione che l’ha finanziato. Alcuni progetti, però, non si dimenticano, come la spassosa traduzione di un lungo elenco di variopinte parolacce destinate a essere usate da un sito come keyword per bloccare le recensioni oltraggiose. Non dimenticherò neanche un progetto di segno opposto, la traduzione di un resoconto inviato da uno specialista a una malata oncologica che aveva in cura: in quella circostanza ho sperimentato sulla mia pelle il coinvolgimento emotivo del traduttore, molto simile a quello che prova il personale medico.
Lavorando presso un’importante società di servizi linguistici ho scoperto invece quanto la traduzione abbia in comune con la politica: entrambe si basano su una delicata attività di mediazione. Nel mondo della traduzione spesso è necessario conciliare le preferenze dei clienti, non sempre corrette, con la norma linguistica. La faccenda si è fatta ancora più complessa quando sono entrata in una multinazionale per dirigere il team responsabile della versione italiana del sito e stabilire il tono di voce. In una società con migliaia di dipendenti, tantissimi dei quali italiani, riuscire a mettere d’accordo tutti richiede tatto, competenza e una buona dose di pazienza.
Oltre a dover mediare come un diplomatico, in questo lavoro mi capita anche di indossare i panni del detective, non alla ricerca di efferati colpevoli, ma più banalmente del termine giusto. A volte il metodo migliore per risolvere i propri dubbi linguistici può consistere nelle ricerche sul campo. Ѐ proprio questo il motivo che mi ha condotto, qualche anno fa, in un negozio di tappezzeria per chiedere direttamente agli esperti come si chiamasse in italiano il tipo di bottone decorativo a cui faceva riferimento il mio testo. I tappezzieri, un po’ increduli, si misero in ordine e s’impegnarono a sfoggiare il loro italiano più forbito: forse pensavano che sarebbero spuntate le telecamere di Rai Uno. Più spesso, sono i miei familiari a essere bersagliati. Nel periodo della stesura della tesi, è stata mia sorella a farmi da cavia per testare le varie versioni. Come un oculista che, applicando una lente diversa durante una visita, chiede al paziente se i numeri sulla tabella luminosa così diventino più nitidi, spesso chiedevo a lei come cambiasse l’effetto se a una parola ne sostituivo un’altra. Oggi è soprattutto mio marito, madrelingua inglese, a sentirsi chiedere spesso: “Che suggestioni evoca in te questo termine?”.
Oltre a fare da consulenti linguistici, amici e familiari sono i primi ad accorgersi se mi è arrivato un progetto con una scadenza impossibile: le telefonate si fanno telegrafiche, le e-mail non ricevono risposta, per cena ci si accontenta del take away. Sanno anche bene che, nonostante non sia un medico del pronto soccorso, nel mio lavoro ci sono spesso emergenze. Ovviamente le richieste più urgenti tendono ad arrivare subito dopo aver buttato la pasta, così mi è capitato di dover mangiare gli spaghetti scotti per mandare all’agenzia la traduzione di una frase aggiuntiva per un comunicato stampa che non poteva aspettare neanche un minuto.
Non importa quante traduzioni abbia fatto. Ogni volta che ne consegno una, l’attesa del feedback del revisore o del cliente genera sempre un po’ di trepidazione, come una teeneger in attesa di una telefonata dopo un appuntamento. Dato che quasi ogni traduzione viene sottoposta a revisione e diventa oggetto di valutazione, la sensazione è che davvero in questo campo gli esami non finiscano mai. Qui vige la regola della tolleranza zero per gli errori! Per chi non lavora nel settore, però, rileggere per l’ennesima volta una traduzione prima della consegna può sembrare la manifestazione di un difetto caratteriale, quasi una forma di nevrosi.
Qualche settimana fa mi è stato chiesto un preventivo per una traduzione. A una telefonata iniziale è seguita l’e-mail con l’allegato. Era il testo di partenza richiesto, ma inviato con una modalità nuova: una serie di selfie in cui la cliente reggeva una rivista, mostrando le pagine che voleva farsi tradurre. Il testo non si leggeva nemmeno, ma in compenso il suo sorriso era in primo piano. Davanti a quelle foto, i ricordi degli avvertimenti ricevuti all’università su quanto spesso la professione del traduttore sia sottostimata e bistrattata sono tornati alla mente, vividi come le statuine di San Gregorio Armeno.
Lorena Di Nola Dopo una laurea in lingue, un master al King’s College, ruoli da account manager, concorsi di scrittura e un viaggio come blogger, Lorena Di Nola è approdata alla sede londinese di una delle più grandi società di servizi linguistici. Quattro anni più tardi è passata a dirigere il team di traduttori italiani di una multinazionale specializzata in viaggi, occupandosi di traduzione, localizzazione, revisione e copywriting. Negli anni ha accumulato notevole esperienza freelance, collaborando con diverse agenzie. Alle traduzioni in italiano ha recentemente affiancato l’offerta di servizi in altre lingue tramite una piccola agenzia dal nome ambizioso: Perfect Translations. Profonda conoscitrice del mondo anglosassone, è membro dell’Institute of Linguists e ha conseguito il titolo di Chartered Linguist. Lorena ha un profilo su Linkedin e uno sul sito dell’Institute of Linguists.
Sul web la trovate su IOL e su Linkedin
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