“La situazione è grammatica” | STL intervista Andrea De Benedetti
Pubblicato il 15 Gennaio 2016 alle 17:42 0 Commenti
di Laura Baldini
A dispetto del titolo, ci sembra di capire che la situazione della nostra lingua non sia poi così drammatica e che ben peggiore sarebbe se l’italiano smettesse di evolversi, se la nostra capacità di creare nuove parole a un certo punto si esaurisse, se relegassimo per sempre la grammatica “in un codice definitivo di norme e ce la tenessimo così, fredda e immutabile, come si fa con i trofei di caccia da esibire in salotto in una macabra e illusoria replica della vita”. Quindi, in sintesi, qual è la sua posizione di fronte a un errore? E quali sono (se ce ne sono) quelli su cui proprio non si sente di passare sopra?
La risposta alla prima domanda – ma per certi versi anche alla seconda – dipende dal punto di osservazione. Se è quello dell’insegnante, l’errore naturalmente va corretto, a patto di mettersi d’accordo su cosa sia un errore, su quali siano gli errori più gravi e sul modello di lingua in base al quale si definisce lo scarto dalla norma. Per capirci: un po’ con l’accento è sempre errore, la virgola prima delle congiunzioni lo è soltanto in pochi contesti, le dislocazioni (tipo «il libro l’ho letto») non lo sono, o non lo dovrebbero essere mai. E in ogni caso, correggiamo pure l’errore ortografico, ma ricordiamo che ci sono errori più gravi, che non si limitano a «sporcare» il testo, ma lo rendono incomprensibile.
Se invece il punto di osservazione è quello del linguista o dello storico della lingua l’errore è un oggetto di studio prezioso, perché ci indica il livello di acquisizione di una lingua da parte di un parlante nativo o straniero, ma anche la direzione che potrebbe prendere la lingua nel caso in cui alcuni di essi dilagassero. Soprattutto, l’errore è in grado di rivelare le incoerenze della lingua. Se tutti i bambini, da piccoli, dicono «dicete» anziché «dite» o scrivono «qual’è» anziché «qual è» non lo fanno perché sono dei sovversivi o degli analfabeti, ma perché applicano coerentemente delle regole di cui hanno intuito il funzionamento ma che purtroppo contemplano eccezioni. Paradossalmente, la grammatica dei bambini è molto più regolare e coerente della grammatica vera e propria. Questo non significa che certi errori non vadano corretti, ma significa che vanno certamente capiti.
Negli ultimi anni mi sono fatta l’idea che ci sia più gente che scrive rispetto a quella che legge: ovviamente con le conseguenze che ne derivano. Che opinione ha in proposito? E secondo lei, alla base di una scrittura mediocre, ci può essere una carenza nella lettura (intendo sia quantitativa che qualitativa)?
Certamente è aumentato il numero di quelli che io chiamo «scriventi di ritorno», di coloro cioè che hanno ripreso a scrivere dopo tanto tempo avendo nel frattempo dimenticato ortografia e morfosintassi (ammesso che prima le conoscessero). La colpa (o il merito) di questo fenomeno va ascritta naturalmente alle nuove tecnologie, ai social network e a tutti gli strumenti che la società della comunicazione mette a disposizione per scambiarsi informazioni. Inutile dire che queste nuove forme di scrittura (sms, whatsapp, chat, ecc.) sono assai poco sorvegliate e spesso ricche di errori, ma rappresentano anche un’opportunità per allargare la base degli aventi diritto di opinione nel grande Parlamento dove si decidono le sorti della lingua. Forse noi siamo affezionati a un’idea di lingua oligarchica, in mano a scrittori e intellettuali, come è stata, di fatto, fino a metà del secolo scorso, quando finalmente gli italiani hanno cominciato a parlare in maggioranza italiano. Ma il fatto che ci sia più gente che lo usi, anche se lo usa “male”, di per sé non mi pare una cattiva notizia. Dopodiché, naturalmente, sarebbe bello se anche quest’italiano «usa e getta» avesse una qualità migliore, e da questo punto di vista, leggere un po’ di più (non necessariamente libri) non guasterebbe.
Secondo lei, arrivare a accettare certi cambiamenti ortografici o grammaticali, come se stesso con l’accento, è davvero un’evoluzione o piuttosto una resa?
Sé stesso con l’accento non è un errore. Lo è per una certa tradizione scolastica di cui sono stato vittima anch’io, non certo per le grammatiche più accreditate. Quando pubblicai il mio penultimo libro (Val più la pratica, editore Laterza, n.d.r.) Luca Serianni accettò di scrivermi la quarta di copertina solo a patto che mettessi l’accento su tutti i sé stesso. Questo per ribadire il fatto che il concetto di errore è spesso abbastanza relativo. Per rispondere a questa domanda basterebbe comunque ricordare che l’italiano è nato dal decadimento e dalla successiva evoluzione del latino classico. Correggere gli errori ha senso fino a quando la maggioranza dei parlanti e degli scriventi non li commette. Quando si diventa minoranza, è giusto, e mi verrebbe da dire anche sano, che le grammatiche ne prendano atto.
Fa continui rimandi alla figura dell’insegnante, quale lei stesso è, tra l’altro: mi sembra di capire che usa la sua ironia per criticare aspramente il lavoro di insegnanti un po’ “bigotti”. Come dovrebbe porsi un insegnante di fronte a un discente che sbaglia?
Come ho detto in precedenza, l’insegnante deve correggere l’errore, senza però che la correzione rappresenti un marchio d’infamia per lo studente. Quando studiavo io, l’errore ortografico era considerato come una specie di oltraggio alla lingua: ne bastava uno per prendersi un quattro sul registro. Certo, in quel modo imparavamo tutti l’ortografia, ma si poteva dire che sapessimo scrivere? Secondo me no. L’errore di ortografia si correggeva, perché era più facile da individuare e da emendare, non perché fosse il più grave. I più gravi erano – e sono – quelli che pregiudicano la comprensione da parte del lettore o dell’interlocutore, solo che sono più difficili da individuare, da classificare e da correggere. A volte per correggere un tema in maniera sensata bisognerebbe riscrivere frasi intere, ma non tutti hanno voglia e tempo di farlo. Più facile correggere l’errore ortografico o morfologico, che si vede prima e si rettifica in fretta. Aggiungo ancora che spesso ho l’impressione che a furia di predicare rispetto e tutela per l’italiano, abbiamo dimenticato (ma forse non l’abbiamo mai veramente saputo), che la lingua, prima ancora che un veicolo di bellezza, è uno strumento a disposizione dei parlanti per tutte le loro necessità comunicative. Chi sbaglia, non commette un delitto. Semmai può mettere in difficoltà sé stesso se l’errore ostacola o frustra i suoi scopi comunicativi. Ma è lui che dobbiamo difendere prima di tutto. La lingua viene dopo.
Chomsky ha affermato: “Quello che siamo o facciamo è soltanto linguaggio”; secondo lei, se ci si dovesse basare sul linguaggio odierno, che cosa siamo?
Siamo delle macchine che producono performance linguistiche piuttosto elementari e a bassa definizione, con un vocabolario ridotto e una capacità creativa non molto più evoluta di quella di un computer. A differenza dei computer, tuttavia, abbiamo un grosso vantaggio: commettiamo errori. Questo non so se ci salverà come individui, ma salverà il linguaggio.
Andrea De Benedetti è linguista, giornalista, insegnante e traduttore. Scrive di sport, società e cultura per diverse testate. In precedenza ha insegnato Lingua e Linguistica italiana presso l’Università di Granada e lavorato come corrispondente dalla Spagna per Tuttosport, Guerin Sportivo e il Manifesto, per il quale ha raccontato, tra gli altri avvenimenti, le elezioni spagnole del 2000 e del 2004, i Giochi Olimpici di Torino 2006 e i Campionati Europei di Calcio Euro 2008 in Austria e Svizzera. È autore dei libri Routine e rituali nella comunicazione (Paravia), L’informazione liofilizzata (Franco Cesati), Ogni bel gioco (Nerosubianco), Val più la pratica (Laterza) e La situazione è grammatica (Einaudi). È inoltre coautore con Mimmo Genga di una grammatica italiana per bienni superiori (E ora l’italiano, Laterza) e con Luca Rastello di Binario Morto (Chiarelettere), inchiesta-reportage sull’alta velocità europea.
Sarà presente come docente alla prima edizione di Italiano Corretto, ciclo di workshop sulla lingua italiana organizzato da STL e doppioverso a Pisa, il 15 e 16 aprile 2016.
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