Lingua italiana | 5 espressioni che discriminano, anche se non sembra

Pubblicato il 11 Settembre 2023 alle 17:21 0 Commenti


Un articolo di Ruben Vitiello


Ash che in L’armata delle tenebre farfuglia «Klaatu barada nikto» e (senza volerlo) risveglia le forze del male. Louise che in Arrival impara una misteriosa lingua aliena e grazie a ciò inizia a vedere il futuro. Hermione che in Harry Potter e la Pietra Filosofale recita «Wingardium Leviosa» e fa levitare una piuma. Cos’hanno in comune questi tre episodi tratti da altrettanti film di successo? Il potere della lingua e delle parole, che nelle opere di ingegno possono addirittura assumere proprietà magiche o fantascientifiche, in grado di sfidare le leggi della fisica o alterare la percezione dello spazio-tempo. Ma ora basta fluttuare a mezz’aria e torniamo un attimo coi piedi per terra.

Senza sconfinare nel mondo della fantasia, è pacifico affermare che le parole hanno un effetto sulla realtà, poiché reali sono le reazioni e sensazioni consce e inconsce che generano nelle persone. Magari non ci faranno spostare oggetti o avere visioni precognitive, ma le parole hanno sì il potere di ispirare e consolare oppure abbattere e ferire altri individui. Ecco perché il modo in cui le usiamo dice molto su di noi e su come intendiamo il mondo. Tuttavia, a volte ricorriamo a formule ed espressioni che ci sembrano innocue e che invece riflettono una visione stereotipata o pregiudiziale della società. Ciò non ci rende automaticamente persone spregevoli: si tratta solo di imparare a riconoscerle ed evitarle, quando possibile. Ma vediamo qualche esempio.


«Tuo marito ti aiuta in casa?»

Una mano con un guanto per la pulizia della casa viola mantiene una confezione di sgrassatore spray gialla col beccuccio rosso, il tutto su uno sfondo verde acqua

Secondo dati raccolti nel 2016 ed elaborati nel 2022, nell’Unione europea sono per lo più le donne a occuparsi dei lavori domestici. E chi l’avrebbe mai detto! Anche se sembrano oggettivare l’ovvio, possiamo partire da queste statistiche per chiederci: dove sta scritto che tocchi alle donne curarsi della pulizia della casa, e che gli uomini debbano al massimo “dare una mano”? Questo ruolo non è connaturato nel loro presunto istinto materno, anche se qualche persona potrebbe ancora pensarla così. Si tratta di una convenzione, uno stereotipo cementato durante centinaia di anni di cultura patriarcale, cultura da cui tanto le donne quanto gli uomini stanno da tempo prendendo le distanze.

D’altro canto, la lingua non sempre cambia allo stesso ritmo con cui cambia la società. L’italiano (o meglio, il modo in cui lo usiamo) mostra ancora numerose dissimmetrie quando si tratta di ruoli di genere. Restiamo in ambito domestico: in diversi dizionari, il sostantivo maschile “casalingo” è marcato come “scherzoso”, a riprova di come un tempo l’idea di un uomo che fa le pulizie fosse motivo di ilarità. Pensiamo poi a “donna di casa”, “donnicciola”, “maschiaccio”, “portare i pantaloni”. Queste sono tutte espressioni che, seppur in modo implicito, reiterano quello stereotipo che vuole le donne sensibili custodi del focolare domestico e gli uomini determinati lavoratori che portano a casa la pagnotta. Non senti anche tu odore di chiuso?


«Gli atleti paraolimpici sono un esempio di determinazione»

Nella narrazione dello sport, atleti e atlete diventano spesso moderni eroi letterari che compiono gesta straordinarie, affrontano sfide con coraggio e sconfiggono avversari in battaglie epiche. Se ciò è valido per le persone cosiddette normodotate, figuriamoci per quelle disabili. Nell’immaginario comune, una persona disabile che compete in un’olimpiade deve superare prima di tutto i propri limiti fisici, cosa che richiede una forza d’animo fuori dal comune. Questa modalità comunicativa, detta inspirational porn, è molto insidiosa, perché responsabilizza le persone disabili della propria condizione e le trasforma in un feticcio per quelle normodotate. Il sottotesto è: se ce la fanno loro, che sono così sfortunate e limitate, tu che sei “normale” non hai scuse per non raggiungere i tuoi obiettivi.

L'atleta disabile Oscar Pistorius cammina su una pista d'atletica con al suo fianco una bambina in un vestito giallo chiaro. Entrambi hanno alle gambe delle protesi da cosa. La bambina ha entrambe le braccia amputate all'altezza dell'avambraccio. Davanti a loro campeggia la scritta "The only disability in life is a bad attitude", ovvero "Nella vita, l'unica disabilità è un atteggiamento negativo"

Un modo per scardinare questa visione è cambiare il punto di vista sulla disabilità, considerandola non tanto un attributo (e men che meno una colpa) dell’individuo, quanto una caratteristica data dal contesto. La disabilità “si avvera” quando persone con determinate condizioni fisiche o mentali si trovano a interagire con una società organizzata per persone che non hanno tali condizioni. Detto terra terra: se il mondo non fosse fatto su misura per chi deambula su due gambe, averne solo una o spostarsi in carrozzina non sarebbe così complicato. Come scrive Fabrizio Acanfora in In altre parole, essere abili è qualcosa di temporaneo, «un privilegio al quale troppo spesso non pensiamo» e che non dipende dalla nostra determinazione o forza di volontà.


«L’assassino ha agito in un momento di pazzia»

Capita spesso che nella copertura di omicidi e femminicidi i media descrivano la persona colpevole come “accecata dalla rabbia”, “rosa dalla gelosia” o, più semplicemente, “impazzita”. Attribuire un gesto violento a una momentanea perdita di senno o un disturbo mentale è un ottimo meccanismo di difesa. Ci tranquillizza, ci convince che il male sia da ricercare altrove, in qualche oscuro recesso della mente, e non risponda alle leggi della razionalità. Il problema è che si tratta di una semplificazione estrema. Per correlare un gesto violento a una data condizione mentale non basta una supposizione a uso drammaturgico: serve una perizia psichiatrica.

Un paragrafo di un articolo di un giornale online: "Adesca un'adolescente online, riesce a incontrarla, la rapisce e nel frattempo uccide parte dalla famiglia della ragazza dando fuoco all'abitazione. Uni criminale certamente, forse un pazzo come ce ne sono stati, purtroppo, molti. In questo caso però, il pazzo criminale è anche e soprattutto un poliziotto.
Fonte: Rainews.it

L’uso di un simile linguaggio contribuisce a rafforzare lo stigma verso le persone con una malattia mentale diagnosticata, alimentando inoltre stereotipi e pregiudizi sul loro conto. I disturbi mentali non sono una garanzia di atteggiamento criminale, non si possono ridurre a singoli sintomi e non sono indice di debolezza caratteriale. Se è vero che dopo la pandemia di COVID-19 la sensibilità verso la salute psicologica è cresciuta, di strada da fare ce n’è ancora tanta: basti pensare all’esperienza di Marco Bellavia al Grande Fratello VIP 2022. Iniziare a non usare con leggerezza “depresso”, “schizofrenico” o “bipolare”, come suggerisce Tiziana Metitieri su Valigia Blu, può essere un buon punto di partenza per invertire la rotta.


«Non vedo colori, solo persone»

Una frase ispirata da ottime intenzioni e basata su un dato di fatto incontrovertibile: le razze biologiche non esistono. Ci sono molti modi per dimostrarlo, ma per semplicità riprendo l’esempio fatto dallo scienziato Riccardo Sabatini in un TED Talk. Pensa al tuo DNA come a un’enorme enciclopedia di 262.000 pagine; tra il tuo DNA e quello di una qualsiasi persona in qualsiasi altra parte del globo, quale che sia il colore della sua pelle, ci sono appena 500 pagine di differenza. Il resto delle informazioni è perfettamente identico. D’altro canto, quelle 500 pagine sono proprio ciò che rende ogni essere umano unico e diverso da tutti gli altri.

Il primo piano di cinque mani appoggiate su un tavolo di legno. Sono disposte in scala cromatica da sinistra verso destra, dalla pelle più scura alla pelle più chiara.

Se però abbandoniamo questa visione poetica e un po’ idealistica, non dovremmo avere dubbi sul fatto che le razze esistono eccome. Per usare le parole della giornalista britannica Reni Eddo-Lodge, la razza è un costrutto sociale creato apposta per perpetrare iniquità e supremazia razziale. Basta leggere un giornale per capire che no, non siamo tutti e tutte uguali, e che il colore della pelle influisce in modo determinante sull’esperienza che facciamo del mondo. Negarlo, magari attingendo al falso mito della meritocrazia, può alimentare quel razzismo inconsapevole e strutturale che scorre forte nella nostra società.

Se portiamo la questione a livello linguistico, il dubbio sorge spontaneo: è opportuno usare la parola “razza”? La risposta, come capita spesso in traduzione, è “dipende”. Questa parola può far accapponare la pelle ad alcune persone e va usata con la giusta consapevolezza del contesto. Se traduciamo una voce autoriale che la usa proprio in virtù della sua forza e del disagio che può mettere in chi legge, dobbiamo usarla anche noi. In testi più generalisti, al contrario, è meglio evitarla del tutto, specie se non abbiamo modo di fare precisazioni. Tenendo sempre presente che, per citare Federico Faloppa in Rimuovere razza dalla Costituzione?, «nessuno ci vieta di sbarazzarci di razza, avendone la scienza screditato il referente reale. Ma solo a patto che ci ricordiamo che i referenti simbolico-sociali – suoi, o delle sue varianti sul piano lessicale, come cultura, tradizione, nazione, lingua, etnia – continuano a funzionare nonostante o grazie a tale discredito».


«Sei proprio un boomer»

Un uomo coi capelli bianchi e un sorriso costretto fa il segno OK con il pollice davanti a un laptop. Davanti a lui campeggia la scritta "OK, boomer"

Ammettilo: anche tu hai usato almeno una volta la parola boomer per sottolineare come non hai più l’età per capire o apprezzare le cose “da giovani”. Anche se ormai viene percepita come uno sfottò divertente e innocuo, questa parola nasce con ben altre intenzioni. Come riporta l’Accademia della Crusca, boomer è un appellativo ironico e spregiativo, che attribuisce alle persone nate durante il cosiddetto baby boom un modo di pensare paternalista, retrivo e dannoso per le generazioni successive. Per capirci, queste persone sarebbero responsabili dei principali disastri contemporanei, dalla crisi finanziaria a quella climatica. Manca giusto la pioggia che fa saltare la grigliata di Pasquetta.

Ora, che molte tra le persone ascrivibili alla categoria “boomer” mostrino effettivamente un atteggiamento sorpassato ci può stare, ma ciò non significa che si possa generalizzare. L’anno in cui nasciamo dice poco o nulla su di noi come persone. Fare dell’età un giudizio di valore, sia esso positivo o negativo, significa cadere nella trappola dell’ageismo. Esistono boomer dalla mentalità recettiva e aperta, come esistono Millenial dalle vedute ottuse e a tenuta stagna. In questo senso, il concetto di “generazione” è sopravvalutato: se non la si incrocia alla storia individuale e agli eventi storici attraversati, lascia il tempo che trova.


Ma insomma, non si può più dire niente?

Ha senso farci questa domanda quando “nero” con la G viene usato senza problemi sui giornali e in televisione, personaggi comici fanno battute omofobe in prima serata e membri del governo cavalcano teorie del complotto come la sostituzione etnica? La libertà d’espressione non è in pericolo: chiunque può ancora pensare e dire ciò che vuole; l’ideale, poi, sarebbe anche prendersene la responsabilità e accettarne le conseguenze. Ciò che sì è cambiato rispetto al passato è che oggi, anche grazie ai social network, sempre più persone marginalizzate possono far sentire la propria voce. È importante ascoltarla, quella voce: magari non cambieremo opinione, ma almeno capiremo perché la costruzione di una società un po’ più equa passa anche dal modo in cui usiamo le parole.

Per chi con le parole ci lavora, approfondire il dibattito sul cosiddetto linguaggio inclusivo non è un semplice sghiribizzo. Anzi, è più che mai necessario. Grandi aziende in numerosi settori stanno adattando le proprie comunicazioni così da renderle più ampie; spesso è puro washing o attivismo performativo, ma altrettanto di frequente è una genuina volontà di posizionamento. Conoscere le linee guida più comuni e accettate per parlare in modo rispettoso delle diverse forme della diversità è utilissimo dal punto di vista professionale. Se vuoi saperne di più, puoi partecipare al nostro corso Le parole contano: come scrivere e tradurre usando un linguaggio ampio: seleziona il pulsante qui sotto, dai un’occhiata al programma e, se decidi di iscriverti, facci sapere com’è andata!


Ruben Vitiello lavora come localizzatore dal 2011, prima come dipendente in un’agenzia di Genova e poi come freelance a Barcellona. È specializzato in interfacce utente, contenuti di assistenza e testi marketing. Nel 2020 ha pubblicato una guida gratuita online al linguaggio di genere in italiano, che nel tempo ha aiutato e ispirato un gran numero di professionisti e professioniste della scrittura. Dal 2022 tiene per STL Formazione il corso Le parole contano, incentrato sui temi della diversità e dell’inclusione nella lingua e nel linguaggio. Oltre al suo lavoro, gli piacciono i viaggi, la musica, lo yoga, le serie TV, i ravioli cinesi, la stand-up comedy e i gatti. Non necessariamente in questo ordine.

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