LUMINUSA – STL INTERVISTA FRANCA CAVAGNOLI

Pubblicato il 10 Luglio 2015 alle 15:26 1 Commento

Un’intervista di Chiara Serani

Intervistiamo oggi Franca Cavagnoli, traduttrice di grandi scrittori di lingua inglese e, a sua volta, autrice di saggi e narrativa. L’occasione è quella della recente uscita del suo ultimo romanzo, Luminusa (Frassinelli 2015) toccante racconto corale dell’esodo africano verso le coste di Lampedusa, crocevia della storia del Mar Mediterraneo e delle storie dei diversi personaggi del libro.

Dalla quarta di copertina – “Ha un nome che evoca la luce, il fuoco, e nelle giornate limpide ti sembra di percepire la grana dell’aria – argento puro. In fondo al suo mare, che ha tutte le sfumature del verde, dell’azzurro e del blu, giacciono ventimila morti senza nome, ammazzati. Di loro restano a volte tracce dilavate dalla salsedine: un sandalo infradito a rombi bianchi e neri comprato al mercato di Sfax, la foto di una sposa dalla pelle nerissima in abito di pizzo bianco, un rotolo di lettere in tigrino, una cassetta di Bob Marley. Ed è qui, a Lampedusa, che Mario, con malinconica determinazione, è venuto ad affrontare il suo segreto senso di inappartenenza e l’incertezza del futuro. Come se raccogliere quelle tracce in un minuscolo museo e salvaguardarne la memoria con didascalie in versi scritte su fragile carta velina potesse rendere più tollerabile la disillusione. Come se solo a Lampedusa, crocevia di destini, di strazio e di solidarietà, fosse possibile rispecchiarsi in chi ha osato cercare la salvezza su un barcone, e tornare a sperare. Con “Luminusa”, Franca Cavagnoli ci costringe a guardare con altri occhi alla terra promessa di Lampedusa, alle tragedie e agli sbarchi che affollano le cronache: per scoprire, guidati dalla voce limpida e ribelle di Mario, la nostra, comune e universale, condizione di migranti.”

Come è nata l’idea di raccontare le storie di Luminusa? E come si è documentata per denunciare in maniera tanto credibile e commovente quello che accade in certi paesi africani e nel grande “cimitero marino” mediterraneo?

Il romanzo, al quale ho lavorato a partire dal 2010, è ambientato a Lampedusa e parla di una strage sistematicamente rimossa ogni volta che si ripete; della nostra incapacità di accogliere chi è diverso da noi e di aprire gli occhi sulla nostra stessa umanità; del rifiuto e della fatica che comporta perdonare e perdonarsi. Parla dell’Italia di oggi, delle sue sordità e crudeltà istituzionali, della sua classe dirigente inesistente; del dolore ma anche della parola più svilita e profanata del momento: la speranza. Da tutto questo è nata Luminusa. Tra le fonti del romanzo, oltre alla quotidiana frequentazione della stampa, ci sono alcuni libri, tra cui Breve storia di Lampedusa di Antonino Taranto, dell’Associazione culturale Archivio Storico Lampedusa; Libia inedita. Paralipomeni della Tirannomiomachia di Vermondo Brugnatelli; Ama il tuo sogno. Vita e rivolta nella terra dell’oro rosso di Yvan Sagnet, ma anche blog e siti di associazioni umanitarie e culturali. Mi sono documentata anche guardando gli oggetti dei migranti sul sito e sul blog di un’altra associazione culturale di Lampedusa, il collettivo Askavusa: entrambi sono stati fondamentali per la genesi e lo sviluppo di Luminusa. Poi nel giugno 2013 sono stata a Lampedusa e ho parlato con la gente. In particolare, Giacomo Sferlazzo di Askavusa mi ha mostrato gli oggetti dei migranti che nel corso degli anni lui e altri avevano raccolto in giro per l’isola e mi ha mostrato pure le sue straordinarie sculture, fatte con il legno dei barconi e gli oggetti rinvenuti in giro per l’isola o sulla spiaggia. Nello stesso anno ho visitato una comunità di accoglienza per minori, nel Fermano, e ho parlato con i ragazzi ospiti della comunità sbarcati a Lampedusa, che mi hanno raccontato le loro storie.

Il ritratto dell’Italia che emerge dal romanzo è piuttosto sconsolante. Il nostro appare come un paese governato da burocrati e politici incapaci e in cui regna il compromesso, un paese in declino dove avanza il vecchio e non il nuovo, e dove manca un pensiero vivo. Con toni quasi da invettiva si leva una denuncia forte e coraggiosa nei confronti di questa rovinosa waste land mediterranea e delle sue autorità regionali e nazionali. Ma c’è speranza, secondo lei, per l’Italia? E in cosa, o in chi, eventualmente risiede?

A me non sembra che ci siano toni da invettiva. Certo, c’è molta indignazione e rabbia, ma non mi sembra che prenda la forma di una tirata retorica. I giudizi politici sono sempre espressi da questo o da quel personaggio a seconda della sua natura, e quasi sempre all’interno di una conversazione e di situazioni conviviali, come succede a tutti noi (e certe volte i personaggi esprimono giudizi che io per esempio non condivido). È questo che volevo esprimere, l’indignazione e la rabbia, nella ferma convinzione che nessuna forza politica è innocente nel dramma di Lampedusa, così come nessuna forza politica è innocente nel modo in cui nel nostro Paese si affrontano i problemi legati ai flussi migratori o si tratta la questione dell’accoglienza dei profughi. Tra le pagine politiche di Luminusa soffia l’aria del tempo. Non ho nessuna fiducia nella nostra classe dirigente, ma ho molta speranza nelle associazioni umanitarie, nel lavoro che fanno quotidianamente.

“Potevo solo andare avanti. E davanti a me c’era il mare”; così racconta uno dei migranti nel libro. Ecco che la migrazione si fa metafora di una condizione comune e universale: anche noi tutti non possiamo che andare avanti verso l’ignoto, lasciandoci alle spalle la nostra storia, più o meno dolorosa. È un tema, questo dell’essere tutti migranti, che negli ultimi anni è stato variamente affrontato, in particolare dalle letterature dei paesi postcoloniali. Cosa insegna questa riflessione, questo cambio di prospettiva, a noi occidentali?

Credo che la nostra storia non dobbiamo lasciarcela alle spalle: dobbiamo farci i conti. Soprattutto in un momento storico come questo in cui la nostra storia recente ci presenta il conto. In Italia, in particolare, non c’è mai stato un vero dibattito – ampio, costruttivo, sincero – sul colonialismo. Ci si trincera ancora dietro il falso mito degli “Italiani brava gente”, come se il colonialismo italiano avesse un volto umano. Pochi sanno dei fusti di gas tossici scaricati sulle popolazioni del Corno d’Africa nel 1935, in spregio delle convenzioni internazionali che ne vietavano l’uso. Questo è il tema del mio primo romanzo, tra l’altro, Una pioggia bruciante. Come pochi sanno della connivenza della classe politica italiana con i dittatori che in quella parte del mondo si sono avvicendati al potere. E pochi sanno che l’Eritrea, una nostra ex colonia, è il quarto paese al mondo dal quale i richiedenti asilo fuggono, dopo Siria, Iraq e Afghanistan. È con tutto questo che dobbiamo confrontarci, come popolo – non dobbiamo più rimuovere la nostra Storia. Questo ci insegnano le letterature postcoloniali. Abbiamo una responsabilità precisa verso chi fugge da guerre, terrorismo e povertà che abbiamo contribuito ad alimentare.

In alcuni passi del romanzo vengono evocate le figure del mediatore culturale e dell’interprete nell’agevolare i rapporti iniziali con i migranti che approdano sulle coste siciliane. Come si trasforma, in questi casi, il ruolo di chi solitamente è più avvezzo a lavorare in circostanze diverse, spesso all’interno di strutture amministrative o dentro una cabina?

Durante la presentazione milanese di Luminusa, Massimo Malara di Emergency ci ha raccontato una cosa interessante: nei loro ambulatori mobili, ogni medico e infermiere è coadiuvato da due mediatori culturali. Il rapporto numerico è questo. Perché prima ancora che una mediazione linguistica è una mediazione culturale che viene richiesta. Se è necessaria una trasfusione di sangue, bisogna mediare tra culture profondamente diverse, farne comprendere la necessità senza sopraffare l’altro o imponendogli scelte non sentite. Alla figura del mediatore culturale si richiedono sia competenze specifiche – la funzione di tramite tra i bisogni espressi dalla persona e il contesto di residenza – sia una buona conoscenza delle strutture assistenziali e dei servizi socio-sanitari in Italia. È un ruolo che richiede grande capacità di adattamento a orari flessibili e carichi di lavoro che possono essere molto intensi se si deve affrontare un’emergenza: si può lavorare quindi in condizioni di forte stress. È un lavoro di grande responsabilità e utilità sociale, che poggia sulla profonda conoscenza di usi e costumi molto diversi dai nostri.

Nel suo romanzo convivono molti stili e registri, dal lirico al cronachistico; vi sono poi dei passi in versi e varie citazioni e allusioni letterarie: insomma, un tour de force per un eventuale traduttore straniero. Le piacerebbe che il suo romanzo venisse tradotto in altre lingue? E se sì, quali consigli darebbe a chi dovesse apprestarsi a farlo?

Consiglierei a un eventuale traduttore straniero di prestare ascolto al corpo sonoro del romanzo e non solo a quello semantico. Certe cose in Luminusa si sentono meglio se le si legge a voce alta, per esempio. Non ho voluto per scelta segnalare graficamente i versi e le rime nel romanzo, con un corsivo per esempio, perché potessero infiltrarsi meglio nella narrazione e modificarne il ritmo. E sarei a disposizione se avesse delle domande o dei dubbi, come fanno con me gli autori che traduco.

  1. Paul Kroker ha detto:

    “Abbiamo una responsabilità precisa verso chi fugge da guerre, terrorismo e povertà che abbiamo contribuito ad alimentare” – dice Franca nell´intervista.
    Vorrei sottolineare questa frase per il suo intero. In Germania spesso si fa una separazione netta tra motivi politici da un lato e quelli economico-sociali dall´altro – asilo politico sì, rifugio dalla povertà no. Dimenticando così la storia del colonialismo e imperialismo nonché le politiche economiche contemporanee.

    Ho letto “Luminusa” e vorrei evidenziare in particolar modo la sua vena poetica e il finale sorprendente.


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