Incerti posti – STL intervista Marco Montemarano
Pubblicato il 11 Settembre 2018 alle 21:21 0 Commenti
di Chiara Serani
Un romanzo di destini incrociati, questo di Marco Montemarano (Morellini, 2017), oltre che di tante dicotomie care all’autore e che rappresentano, appunto, temi costanti della sua scrittura narrativa, già affrontati, per esempio, con La ricchezza, il libro che gli è valso il Premio Nazionale di Letteratura Neri Pozza nel 2013. Mi riferisco in particolare alle differenze e alle incompatibilità esistenti tra Nord e Sud (d’Italia e d’Europa), tra adolescenza o giovinezza e adultità, tra genitori e figli e tra passato e presente.
Antonio, adolescente romano dalla vita complicata, bullizzato e alla ricerca di una figura paterna più o meno reale, trova sollievo praticando, insieme all’amico Bernardo, aspirante suicida, il parkour, cioè l’arte di compiere un dato percorso superando gli ostacoli, in particolar modo urbani, attraverso movimenti di ogni genere (corsa, salti, acrobazie varie…). Quello che Antonio fa realmente, gli altri personaggi dovranno fare metaforicamente per trovare infine, forse, il loro posto nel mondo, approdando a una catarsi conclusiva che ha il sapore della quadratura del cerchio e in cui la madre del ragazzo, Arianna, ex bellissima ora obesa, suo zio Matteo, con una carriera infranta in una grande città europea, e il suo patrigno musicista, Gianni “KoRyu” Vento, scopriranno e dovranno affrontare importanti segreti del loro passato.
L’“altrove” ha da sempre un ruolo importante nei tuoi romanzi. Il rapporto con il luogo d’origine appare spesso complesso, ambiguo e, in parte, doloroso, sia che dall’Italia ci si sposti nell’Europa del Nord sia che dal Giappone, come nel caso di Yasuko, personaggio di “Incerti posti”, si sogni e si realizzi di vivere in Italia. Tuttavia, l’agognato altrove non sembra quasi mai rappresentare la soluzione ai problemi dei tuoi personaggi. Mi viene in mente una vecchia battuta di Altan che recitava “Cerco di andarmene lontano ma mi vengo sempre dietro”. Sia ciò che si cerca che ciò che si detesta è forse più vicino di quanto non sembri? Cosa ne pensi?
Hai ragione, l’altrove non è propriamente la soluzione ai problemi, anche se è affascinante e può servire a inquadrare le cose nella giusta prospettiva. Questa è una nota autobiografica, qualcosa con cui ho dovuto fare i conti come molti altri migranti o anche emigrati, come si diceva ancora trent’anni fa. Ovunque tu vada, a una strada, un continente o una galassia di distanza, le tue origini ti seguiranno. Ma sai che c’è? È giusto così. Continuando sull’autobiografismo, tra non molto avrò sessant’anni, e credo che sia l’età delle riconciliazioni. Il fatto di aver trascorso trent’anni all’estero mi facilita in questo. Mi sto riavvicinando a quello di cui ho cercato di liberarmi per tutta la vita e mi sembra tanto di guadagnato. Se fossi rimasto in patria forse mi parrebbe una sconfitta. Ma venendo al romanzo, sì, come in altre cose che ho scritto precedentemente ho mandato i personaggi, in questo caso i protagonisti Antonio e Matteo, molto lontano dal loro luogo di origine a scoprire la verità che era nascosta dietro l’angolo. Ricollegandomi a quello che dicevo prima, l’idea è che l’altrove non sia di per sé risolutivo, ma che possa essere utile. La distanza fisica si trasforma in (giusta) distanza metaforica. Le cose si vedono meglio, le si inquadra nel loro contesto.
Nei tuoi libri, e specialmente in “Incerti posti”, i padri rappresentano figure problematiche con cui i tuoi personaggi devono di volta in volta fare i conti: padri assenti, o presenti ma incompresi e disprezzati, padri morti, padri con cui è difficile comunicare, e allora se ne cercano di altri (se non, addirittura, di famiglie putative intere, come nel caso di Giovanni in “La ricchezza”). Il conflitto personale genitore-figli si apre ovviamente a considerazioni di carattere generazionale e le differenze tra generazioni affiorano spesso nei tuoi romanzi. Come sono cambiati i ragazzi di oggi rispetto a quelli dei decenni precedenti?
Vedo che la sfida di fronte a cui si trovano è la stessa di sempre, capirci qualcosa per poi fare le scelte giuste. Quello che oggi rende più complicato questo processo è da un lato la grande quantità di opzioni, dall’altro la difficoltà di reperire i valori, e cioè i criteri alla luce dei quali compiere le scelte della propria vita. Per questo Antonio, il protagonista adolescente di Incerti posti, appartiene a una subcultura giovanile, il parkour. È grazie a questa disciplina che rinverrà l’energia, le risorse per compiere la sua impresa, che poi nel suo caso è semplicemente la ricerca dell’incontro con il padre di cui non conosce l’identità. Altri criteri orientativi intorno a sé non li trova. La famiglia è naufragata, il quartiere disgregato, la scuola dissestata, la generazione precedente insufficiente e come pensa in un sogno. Nel romanzo ho rappresentato i bulli del quartiere in chiave un po’ grottesca. Sono come i cattivi dei vecchi western. Ma in fondo anche loro si trovano di fronte allo stesso problema di Antonio. Capire, scegliere, non soccombere.
Al fondo dei tuoi romanzi e, soprattutto, della memoria dei tuoi protagonisti, c’è talora un crimine del passato, un fattaccio, un delitto più o meno reale, più o meno immaginato, un “peccato originale” su cui si strutturano l’evoluzione e l’esistenza dei protagonisti stessi e il cui ricordo diventa una sorta di rumore bianco ad accompagnarli sempre e ovunque. Nei tuoi libri, insomma, non solo “il passato è una terra straniera” ma è anche un terreno minato. Allo stesso tempo, la felicità piena sembra poter esistere principalmente nello ieri. La memoria ci gioca brutti scherzi oppure dobbiamo veramente lottare per affrancarci da ciò che è stato e che talvolta pesa, nel bene e nel male, come un paradigma inibente?
La memoria gioca davvero brutti scherzi. La memoria e gli altri, vorrei dire, che a volte sono gli stessi membri della nostra famiglia, i quali magari per anni ci tengono all’oscuro di qualche fatto scabroso, naturalmente „per il nostro bene“. Credo che sia un’esperienza diffusa. Ma fare chiarezza, ripristinare la „verità storica“ del nostro passato è necessario. Se non ci facciamo per prima cosa storiografi della nostra stessa esperienza siamo condannati a vivere nell’equivoco, nel dubbio, a crescere come piante storte, mai veramente artefici delle nostre esistenze. È una mia convinzione, questa. E credo, come hai colto molto bene tu, che questo sia uno dei temi più originari di ciò che scrivo.
I primi termini utilizzati per descrivere il parkour sono stati «arte dello spostamento» («art du déplacement») e «percorso» («parcours»). La metafora dello spostamento e del movimento è centrale in “Incerti posti” e a partire proprio dal titolo – che, come ogni soglia narrativa, ci invita a riflettere, in questo caso sull’importanza del “dove” e sulla sua mutabilità. Come hai pensato, in questo senso, al parkour, disciplina ancora sconosciuta ai più? Muoversi, spostarsi, cambiare prospettiva, trovare il modo di superare gli ostacoli può rappresentare una via per la realizzazione di sé? Ricordo un libro di Alejandro Jodorowsky, “Psicomagia. Una terapia panica”, in cui l’autore invitava i lettori a fare più o meno ciò che si fa nel parkour, cioè a camminare in linea retta senza mai deviare, superando gli ostacoli (alberi, auto, persino le case, attraverso le quali si può chiedere di passare semplicemente suonando il campanello); ciò, come atto poetico, trasgressivo e terapeutico. Avevi in mente anche tu questo potenziale “curativo”?
Proprio così. Il movimento è curativo perché è l’antidoto dell’immobilità in cui si trovano i familiari di Antonio, il protagonista adolescente. In questo senso, insieme a quella della distanza, il movimento diventa la seconda grande metafora che sorregge tutta la narrazione. C’è però un altro motivo per cui la scelta è ricaduta sul parkour, e riguarda la tecnica della narrazione. Volevo che Antonio fosse portatore di una subcultura, membro di un gruppo giovanile. Avevo anche pensato di farlo rapper, o graffitaro. Alla fine mi sono accorto che il parkour era più promettente dal punto di vista narrativo perché è una di quelle attività giovanili che gli adulti proprio non capiscono. Questo mi ha consentito di allontanare ulteriormente Antonio dalla generazione precedente.
Se volete incontrare l’autore e la sua intervistatrice potete venire a Pisa (Libreria Feltrinelli, Corso Italia n. 50) il 22 settembre 2018 alle 18,30 (link all’evento Facebook).
Noi saremo quelle in prima fila ad ascoltarli. ????
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