Una giornata al Salone del libro di Torino… parlando di traduzione

Pubblicato il 21 Maggio 2015 alle 8:33 0 Commenti

Un articolo di Chiara Serani

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Si è appena conclusa la 28° edizione del Salone Internazionale del Libro di Torino, che anche quest’anno ha ospitato gli appuntamenti de l’AutoreInvisibile, organizzati e coordinati da Ilide Carmignani e dedicati al mondo della traduzione.

Questi seminari rappresentano ormai da 15 anni un’imperdibile occasione di aggiornamento in cui vengono dispensati, come si legge sul Programma del Salone, «[s]egreti e consigli per gli “autori invisibili” che trasformano una lingua in un’altra». E anche in questa occasione, come sempre, gli interventi si sono mossi tra molti argomenti e hanno visto grandi nomi e personaggi della traduzione e dell’editoria italiana. Noi vogliamo raccontarvi la giornata del 16 maggio, alla quale abbiamo assistito con grande piacere e interesse.

Ad aprire la mattinata, alle 10.30, l’incontro dal titolo “Tradurre graphic novel”, 11295638_845640692197153_9164504488660040757_ncon Luca Baldazzi (Coconino Press), Francesca Martucci (Rizzoli Lizard) e Giovanni Zucca. L’espressione “graphic novel” è recentemente approdata nella nostra lingua per designare i “romanzi a fumetti”, un genere in forte ascesa; l’Italia ha del resto una produzione assai feconda di fumetti e graphic novel, nonché tanti lettori appassionati. Sembrano saperlo bene alla Coconino Press, fondata nel 2000, dove molta attenzione è dedicata proprio alla qualità della traduzione, soprattutto considerando che, come ha dichiarato Baldazzi, “il traduttore di graphic novel deve essere un bravo traduttore”. In questo campo si incontrano in effetti difficoltà maggiori, o se non altro diverse, da quelle della “semplice” traduzione di narrativa, in particolare per il “corpo a corpo” continuo del traduttore con l’elemento grafico del testo. Per esempio, il testo tradotto deve rispettare i margini e lo spazio dei balloon in quello che è spesso un grandissimo sforzo di sintesi traduttiva e di rinuncia al “fantasma della fedeltà”; e c’è poi, sempre, da rispettare la componente visiva che spesso, come nei manga, è molto lontana dalla nostra tradizione. Martucci, che ha iniziato come traduttrice e ora si occupa di revisione per Rizzoli Lizard, ha sottolineato anche lei il grande sforzo che il traduttore deve compiere proprio nel tentativo di far combaciare grafica e scrittura e unirle sulla pagina; questo richiede, secondo la sua espressione, una specifica “alfabetizzazione all’immagine”: il traduttore non può infatti fare a meno di tenere conto di ciò che suggerisce l’immagine se vuole rendere correttamente le sfumature di senso che da essa scaturiscono. In qualità di traduttore, Zucca ha confermato tutte queste problematicità, accompagnando il suo intervento con delle tavole illustrate per spiegare la difficoltà di rendere al meglio, per esempio, le molte onomatopee dei fumetti o i giochi di parole che devono rispettare la componente visiva del testo, e la necessità di fare molti più adattamenti che nella narrativa: nelle parole di Zucca, il traduttore di fumetti è “un vero e proprio artigiano”.

11233553_845645492196673_8505613286222073393_nA seguire, in “Vita magistrale di un capitano di ventura” Ilide Carmignani ha presentato una grande personalità e un indiscutibile punto di riferimento nel mondo della traduzione editoriale italiana: Vincenzo Mantovani, traduttore di Peter Carey, Ernest Hemingway, Henry James, Malcolm Lowry, Henry Miller, Edgar Allan Poe, Philip Roth, Salman Rushdie, Kurt Vonnegut e altri mostri sacri della letteratura anglofona. Mantovani ci ha regalato un umanissimo e divertente racconto di come negli anni Sessanta fosse approdato alla traduzione, quasi per caso, in una realtà editoriale in fermento e ben diversa da quella di oggi, vessata dalla crisi e dalla mancanza di idee e capacità costruttive. Ci ha raccontato di incontri fortunati e slanci entusiastici. Oggi i percorsi sono certamente più mirati, ma allora era tutto diverso: Mantovani lesse su Il Resto del Carlino un articolo su un grande agente letterario – il più grande, all’epoca: Erich Linder, che aveva in mano tutto il mercato editoriale italiano e all’inizio aveva lavorato anche come traduttore – e lo cercò perché gli era parso un uomo interessante. Ricevette alcune pagine di Faulkner per una prova di traduzione che superò, e così venne presentato alle case editrici Einaudi e Feltrinelli. A quel tempo, ha ricordato Mantovani, l’editoria era davvero molto disponibile (da Einaudi fu preso addirittura “annualmente”, senza un contratto, e a fine anno veniva pagato con un conguaglio in base alle cartelle tradotte) a differenza di quella contemporanea, in cui ha rivelato con grande sincerità e verve di incontrare lui stesso molte difficoltà. Mantovani ha poi raccontato come negli anni Settanta avesse avuto l’idea, insieme ad altri, di fondare un sindacato per traduttori, allora inesistente, con il progetto di trasformare il pagamento da cartella a orario; quello che lui scoprì, incredibilmente, fu di voler fondare un sindacato per dei lavoratori che non c’erano! I traduttori erano infatti perlopiù lavoratori occasionali, spesso, come le ha definite, “signore dal doppio cognome”, cioè mogli di diplomatici e alti funzionari stranieri che avevano tradotto un libro o due in virtù dell’essere amiche di qualche editore (pare che all’epoca circolasse la battuta “una traduzione non si nega a nessuno!”). Spronato da Carmignani, Mantovani ci ha infine regalato l’ennesimo aneddoto divertente: il suo primo contatto con un grande autore fu con Doris Lessing, alla quale scrisse una lunga lettera con dei dubbi di traduzione che riguardavano soprattutto l’inglese del Sudafrica – allora non c’era certo Internet, a soccorrere i poveri traduttori – che si indignò parecchio per le sue “scarse” conoscenze linguistiche, facendolo rimproverare dal suo editore italiano: questi gli suggerì di non contattare più nessuno, perché nella migliore delle ipotesi rischiava di ricevere lunghe lettere noiose e importune da parte di scrittori che lo avrebbero eletto a lettore ideale e confidente, l’unico in grado di capirli. Da allora Mantovani decise di non avere più contatti con gli autori che doveva tradurre. Il racconto si è chiuso con una dichiarazione di gioia per l’essere diventato traduttore, per quanto economicamente la vita di chi traduce sia spesso faticosa e complicata; per questo motivo, tra ironia e amarezza, Mantovani ha sconsigliato di seguire questa strada a meno di non avere già un lavoro più remunerativo (la stessa cosa accadde alla Carmignani, che ci ha raccontato di come, giovanissima ed entusiasta, avesse contattato Fernanda Pivano e questa le avesse consigliato, sconsolata, di fare altro… per fortuna non le ha dato retta, aggiungiamo noi!)

10856457_845646802196542_8396882503274783166_oNel terzo e ultimo seminario della mattinata, in collaborazione con Zanichelli, si è invece parlato di lingua italiana e tedesca. In “Lingue in movimento”, Giuseppe Antonelli e Susanne Kolb hanno discusso di evoluzione linguistica, facendo soprattutto riferimento agli ultimi anni e, in particolare, ai tantissimi neologismi provenienti dal mondo dei media, del giornalismo e dell’attualità politica. Antonelli ha spiegato che il parlante italiano nutre un atteggiamento di sospetto, spesso immotivato, nei confronti della novità linguistica, e chi oggi si scandalizza per una parola come “apericena”, per esempio, spesso non sa che negli anni Sessanta venivano aspramente criticate parole come “libresco” e “fantascienza”, oggi di uso comune, e che l’evoluzione delle lingue è inarrestabile. La Kolb ha poi spiegato che, rispetto all’italiano, una lingua molto polisemica, il tedesco presenta circa 1/3 di lemmi in più e crea continuamente nuovi composti, neologismi che anche in questo caso derivano frequentemente dalla cultura di massa o, magari, dagli apporti di altre comunità presenti in Germania (in particolare quella turca, quella serbo-croata e siriana). Il tedesco sente invece con molto fastidio gli anglicismi, un po’ come l’italiano, la cui lingua ha però una evoluzione più “glocal”: parole di uso internazionale si mescolano, nell’uso del parlante medio, con regionalismi vari e diffusi. Comunque sia, a volte le “parole nuove” hanno vita breve e rimangono tra le pagine dei dizionari solo per un anno; altre volte permangono, dice Antonelli, “come una prova al carbonio 14 di un’intera epoca”. Ma come ci si regola, allora, per accogliere determinate parole in un dizionario e non altre? Ce lo ha spiegato Kolb, di Zanichelli, facendo riferimento alle moltissime fonti oggi a disposizione del lessicografo (giornali, internet, media vari) e chiarendo che per fortuna il lavoro lessicografico che prima si faceva in una vita oggi si fa in un pomeriggio. Tutto va però valutato sempre con estrema attenzione: tante volte ci si accorge, per esempio, che quello che si ritiene un neologismo o un “tormentone linguistico”, è in realtà una parola già attestata; in questo senso porta alcuni esempi sorprendenti Antonelli, che cita come fonti l’italiano ottocentesco di Capuana, Leopardi e Manzoni: chi ricordava, per esempio, che nel capitolo 17 de I promessi Sposi Renzo “si fermò un momentino sulla riva a contemplar la riva opposta”?

10941116_845649788862910_4052460008804582370_nApre la sessione pomeridiana un seminario sulla traduzione di testi turistici, in cui intervengono Silvia Castelli (EDT-Lonely Planet), Luciana Cisbani e Barbara Ronca, sempre coordinate da Ilide Carmignani. Castelli, editor delle note guide Lonely Planet, ha spiegato subito come per EDT i traduttori siano una risorsa preziosissima, poiché tutte le guide in questione nascono in inglese e vengono revisionate e aggiornate con grande frequenza, necessitando perciò di continue “ritraduzioni”. Per questo per EDT tende a “fidelizzare” i propri traduttori e a farli crescere professionalmente, cercando sempre di scegliere il traduttore giusto per la guida giusta in base alle specificità e alle competenze personali di ciascuno. Inoltre la casa editrice mette a disposizione dei suoi traduttori, oltre che strumenti di ricerca, archivi e sostegno grafico, un forum in cui potersi confrontare con colleghi ed editor di riferimento per ogni eventuale problema di natura linguistica, informativa eccetera. Come poi ha confermato Barbara Ronca, traduttrice proprio per EDT (ma non solo, ha anche tradotto narrativa), quello che viene chiesto in cambio al traduttori è soprattutto di rispettare il tono linguistico che è ormai divenuto un marchio di fabbrica Lonely Planet e deve essere sempre riconoscibile: sobrio, bonario, rispettoso ma anche scanzonato. Cisbani, che ha invece tradotto diverse guide turistiche per il Reader’s Digest e dal 2009 traduce, cura e coordina le City Guides Louis Vuitton (Roma, Venezia, Milano), ha parlato delle guide come di testi ibridi, che devono essere al contempo informativi, descrittivi e persuasivi. Perciò, ha spiegato, bisogna sempre modulare il tono in maniera corretta e trovare le note giuste per dialogare con il lettore; inoltre, tradurre guide significa compiere un vero e proprio lavoro di localizzazione, basato anche su un grande lavoro di documentazione e ricerca, soprattutto se non si conosce bene il paese di cui si sta traducendo. Ronca ha infine descritto la sua esperienza proprio con le Lonely Planet, presentandole come “strumenti” in cui il viaggiatore deve avere fiducia assoluta ma anche come veri e propri testi autoriali (ogni guida LP ha un autore diverso, e spesso più di uno). La loro traduzione si colloca quindi, per Ronca, a metà strada tra la traduzione editoriale e quella tecnica: nel primo caso si tratta appunto di restituire al lettore la voce personale dell’autore entro il carattere più generale della lingua LP, mentre nel secondo di fare un gran lavoro di ricerca, confrontandosi spesso con i colleghi, i glossari LP, gli archivi EDT eccetera, allo scopo di produrre uno “strumento” di cui i viaggiatori possano fidarsi ciecamente.

In chiusura di giornata abbiamo ascoltato Guido Davico Bonino e Federica Magro parlare di classici italiani; in “Italiano in movimento: la nuova Mandragora” ci è stata infatti presentata una nuova edizione BUR del capolavoro teatrale di Machiavelli. L’edizione rientra nella collana Grandi Classici che ha già visto alcuni importanti testi della letteratura italiana presentati in italiano moderno – tra tutti, per provocazione e invenzione, spicca Il Decamerone di Aldo Busi. L’operazione ha incontrato favori e critiche – stroncata, in particolare, da Gian Luigi Beccaria – e nasce dalla volontà, spiega l’editor Magro, di rendere meno ostica la lingua dei classici: mentre gli inglesi, per esempio, leggono molto il nostro Boccaccio perché lo trovano tradotto in lingua contemporanea, noi non lo leggiamo affatto, ha spiegato. La scelta della BUR è stata di lasciare i propri autori liberi: così, mentre l’istrionico Busi ha così inserito nel suo Decameron espressioni pop come “dadaumpa”, Davico Bonino, che ha curato la Mandragola, ha optato per una linea più rigorista e più filologicamente aderente all’originale. In questo senso Davico ha suggerito di essere stato quasi “un traduttore” di Machiavelli, di essersi cioè messo umilmente al servizio del testo senza cercare di riscriverlo. Davico Bonino, che è anche traduttore, ha così svelato la sua idea di traduzione: “la traduzione”, ha detto “è un lavoro subalterno, fatto di devozione, che non prevede mai che si scavalchi l’autore”.


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