Tradurre la paura
Pubblicato il 31 Ottobre 2025 alle 7:02 5 Commenti
Un articolo di Eugenia Durante
La paura è un’emozione primordiale che attraversa epoche e culture, dando vita a un universo di storie di fantasmi, streghe, vampiri e mostri di ogni genere che assume forme sempre nuove. Chi quelle storie le traduce si confronta con una materia viva, fatta di parole, silenzi e suggestioni da trasportare in un’altra lingua e in un’altra cultura mantenendo inalterata la forza dell’originale.
Tradurre l’horror, infatti, significa ricostruire un immaginario di archetipi, simboli e silenzi plasmati dalla narrazione, dal ritmo e dalle scelte semantiche. La sfida è duplice: capire che cosa genera paura nel pubblico di partenza e trasmettere le stesse emozioni in quello d’arrivo, misurandosi con culture, sensibilità e modi diversi di percepire l’orrore.
In questo articolo parleremo di come affrontare ogni ostacolo… senza farci troppo spaventare.
Se la paura non arriva, il testo ha fallito
In Danse Macabre, Stephen King scrive: “Ci inventiamo gli orrori per aiutarci ad affrontare quelli veri.” L’orrore non è evasione, ma una traduzione del reale. Cosa succede, dunque, quando dobbiamo ricreare un’emozione universale in una lingua diversa da quella in cui è stata originariamente suscitata?
La traduttrice e studiosa Clotilde Landais lo dice senza giri di parole: se chi legge una storia dell’orrore non prova nemmeno un po’ di paura, quella storia non ha senso di esistere. Di riflesso, l’obiettivo di chi traduce non è solo far capire, ma anche far sentire, superando le barriere culturali e linguistiche per riuscire a toccare i tasti emotivi giusti.
Tra ritmo e realtà
Il meccanismo alla base della narrativa horror si regge sull’equilibrio tra due elementi: l’effetto di realtà e la suspense. Mentre il primo serve a radicare la paura in qualcosa di riconoscibile per il lettore (dettagli concreti, dialoghi credibili, ambienti familiari…) e a fargli credere, almeno per un istante, che quella storia potrebbe accadere davvero, la suspense è il respiro del racconto, che cresce grazie al ritmo, alle pause e all’alternanza tra familiare e ignoto.
In traduzione, mantenere un equilibrio tra queste due forze è fondamentale: se si sacrifica l’effetto di realtà, si perde potenza; se è la suspense a svanire, la tensione emotiva evapora. Proprio come un regista, il traduttore deve riuscire a dosare con sapienza entrambi gli ingredienti, rendendo credibile l’incredibile nella lingua d’arrivo e orchestrando con maestria il ritmo sintattico della paura.
Ne sono un esempio le frasi “Qualcosa si mosse nell’ombra” e “Nell’ombra, qualcosa si mosse”. La differenza è sottile: nella prima, l’attenzione si concentra su “qualcosa” e il mistero riguarda chi o cosa si muove; una scelta più narrativa e diretta. Nella seconda, invece, spostando “nell’ombra” in apertura e separandolo con una virgola, il ritmo rallenta, la tensione cresce e il lettore ha più tempo per immergersi nell’atmosfera – per sentirla davvero. È una frase più cinematografica, costruita per generare suspense e attesa.
La cultura dell’orrore
La ricostruzione dell’immaginario rappresenta un’altra sfida cruciale nella traduzione della narrativa horror. Ogni scelta traduttiva oscilla tra due poli: rendere il testo familiare al lettore o conservarne la componente di estraneità. Come confermato da Landais, entrambe le soluzioni presentano dei rischi: se da un lato troppa “domesticazione” rischia di minare l’inquietudine che nasce dall’ignoto, l’eccessivo straniamento dato da rimandi molto lontani dalla cultura d’arrivo potrebbe portare il lettore a non riconoscersi nella storia.
Un esempio? Se traduciamo un horror ambientato in una piccola città americana del Midwest e lo localizziamo in un paesino della Brianza, perdiamo quella sensazione di isolamento tipicamente statunitense e snaturiamo il romanzo. Ma se diamo per scontato che i riferimenti culturali dell’originale siano chiari e rilevanti per il lettore, rischiamo di perdere l’effetto di straniamento voluto dall’autore. Il traduttore, quindi, deve lavorare anche sul contesto, decidendo fino a che punto rendere riconoscibile o estranea la paura.
La cultura, però, non basta: anche la lingua è un campo minato di sfumature e associazioni che possono compromettere la credibilità del testo.
Un immaginario semantico
Per essere efficace, una traduzione deve riuscire a cogliere le implicazioni emotive di una parola e il peso che essa può avere nella memoria culturale del lettore.
Lo spiega bene Anna Pastore, storica editor italiana di Stephen King per Sperling & Kupfer, in un’intervista a RAI cultura: “King gioca tantissimo con la lingua, i modi di dire, i proverbi, le ninne nanne, le favole. Quando è uscito ‘The Bazaar of Bad Dreams’, da noi tradotto come ‘Il bazar dei brutti sogni’, tanti ci hanno chiesto perché non l’avessimo intitolato ‘Il bazar degli incubi’. Perché in inglese è bad dreams, non nightmares: i ‘brutti sogni’ sono quelli dei bambini, e King gioca proprio con questo elemento, ti fa tornare bambino e ti fa provare quelle paure ataviche che avevi quando eri piccolo.”
La chiave sta proprio nel capire che “brutti sogni” e “incubi” non evocano le stesse emozioni e lo stesso immaginario. Nel romanzo la paura ha una forte componente infantile, domestica, innocente, e tradurla con un termine più “adulto” avrebbe spostato il tono e, di conseguenza, anche la memoria del lettore.
Non aprite quella porta!
Cosa accade, invece, quando si traduce troppo? L’overtranslation è un rischio reale per chi traduce la narrativa horror. Rendere esplicito ciò che nel testo originale rimane implicito è come accendere la luce in una stanza che dovrebbe restare buia.
Il traduttore deve capire quando intervenire e quando, invece, resistere alla tentazione di interpretare, senza proteggere il lettore dal vuoto e dall’ambiguità. Ed è proprio lì che vive la paura: nei silenzi, nelle parole non dette, nei piccoli dettagli che non tornano.
È importante ricordare che la traduzione non finisce con la pubblicazione del libro, ma prosegue nella lettura. Ogni testo dell’orrore resta incompleto finché non trova qualcuno disposto a riempirne i vuoti. Come aveva intuito il critico letterario Wolfgang Iser, leggere è un atto di costruzione, e nell’horror la paura è la materia che permette a quella costruzione di non crollare.
Chi traduce non ha solo il compito di trasmettere un’emozione, ma deve anche lasciare che il lettore la ritrovi dentro di sé, rivivendola e dandole un senso nuovo, intimo e personale.
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Tradurre l’horror, in sostanza, è un atto di mediazione e di fiducia. È aprire la porta sull’ignoto senza accompagnare chi legge oltre la soglia, lasciando che sia il lettore a decidere se, come e quando varcarla. In fondo, la paura può cambiare lingua, ma non la sua vera natura: continuerà sempre a parlarci, a spaventarci a morte e, paradossalmente, a farci sentire più vivi che mai.
Credits: La foto dell’articolo è su canva.com
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Splendido articolo, complimenti per la profonda e meticolosa analisi inerente il non semplice compito del traduttore. 0ttima disamina.
Grande Eugenia! Brava! Io non leggo l horror, ma sono una lettrice appassionata e tu mi hai fatto capire perfettamente il lavoro che c’è dietro ad una traduzione di un testo di questo tipo e l’importanza degli elementi di cui tener conto. Spero di poter leggere altri articoli di questo tipo che mi aiutino a capire l’importanza delle sfumature di cui una traduzione efficace deve tenere conto. Grazie!!
Articolo molto interessante.
Mette in luce l’importanza delle sfumature ( che poi tanto sfumature non sono) nella traduzione di un testo.
Si comprende l’importanza di un buon traduttore, cosa su cui un lettore a volte non riflette, ma alla luce del tuo articolo viene pienamente rivelata.
Direi che un buon traduttore dà dimensioni al testo.
Un paper che definirei “chirurgico” per analisi e accuratezza. Grazie Eugenia!
Ottimo lavoro Eugenia! Hai espresso chiaramente quello che la traduzione di un testo deve trasmettere al lettore, sono appassionata di Stephen King e sono certa che anche lui apprezzerebbe quanto tu dici.