Italiano plurale: le lingue che scriviamo | STL intervista Mariarosa Bricchi
Pubblicato il 10 Agosto 2017 alle 15:57 0 Commenti
Un’intervista di Chiara Rizzo
Storica della lingua italiana, scout e direttore editoriale presso importanti case editrici, oggi editor freelance, Mariarosa Bricchi è un’autorevole esperta di prosa letteraria e questioni linguistiche dell’Otto e del Novecento. Da tempo fra i suoi interessi di ricerca ci sono temi legati alla traduzione e alla revisione: in veste di editor, ha rivisto le traduzioni di moltissimi romanzi e racconti, e tiene abitualmente corsi di editing e italiano per traduttori presso varie Università ed enti di formazione, tra cui STL.
Indagare e raccontare il carattere molteplice e versatile dell’italiano di oggi, più che mai lingua viva in costante evoluzione, è la scommessa fondamentale che linguisti, addetti ai lavori e anche semplici parlanti devono saper affrontare. Il saper riconoscere, collocare e sfruttare la moltitudine di tonalità che la nostra lingua ci mette a disposizione è infatti requisito indispensabile per chi con le parole lavora, e tanto più per i traduttori, che devono poter attingere a questo repertorio variegato per soddisfare al meglio le richieste del testo di partenza (e del lettore a cui quel testo è destinato).
Varietà locali e regionali, dialetti, influssi dell’inglese, sottocodici, registri: come si fa ad affinare la capacità di orientarci fra le mille frecce che abbiamo oggi al nostro arco, alla luce di una progressiva contaminazione (data anche dalla globalizzazione e dalla diffusione dei social) che molti interpretano come un imbarbarimento? Dove si “esercitano” gli italiani plurali?
In verità l’italiano plurale lo esercitiamo tutti, ogni giorno. Magari senza rendercene conto fino in fondo, adattiamo il nostro modo di parlare o di scrivere alla situazione e al destinatario; e consideriamo normale che un articolo di giornale sia scritto in modo diverso dal bugiardino di un farmaco; che uno scienziato intervistato alla televisione usi parole che un politico non userebbe; che un post su Facebook segua regole sue proprie, inapplicabili in una lettera all’avvocato che ci assiste in una causa. Quello che determina il salto (un salto importantissimo per chi usa professionalmente la lingua) è la consapevolezza. E la disposizione a considerare tutte le varietà disponibili come un repertorio cui attingere secondo il bisogno.
Malleabilità, flessibilità, capacità di cogliere la situazione e adeguarsi al contesto comunicativo: ma c’è un vizio a cui pur in tutta questa tolleranza ed elasticità linguistica ritieni che proprio non si debba cedere? Se tutto è ammesso e l’italiano ha non uno ma mille volti, c’è comunque qualche peccato capitale che mai e poi mai bisogna commettere?
Il vizio principe è questo: non dominare la lingua, ma esserne dominati. C’è molta differenza tra la capacità di un parlante colto di inserire nel suo discorso, magari scherzando, forme agrammaticali; e la situazione di chi usa un registro basso, o scorretto, perché non ne padroneggia altri.
Quali sono i fattori più importanti da prendere in considerazione nello scegliere le parole più adatte per la nostra scrittura (o traduzione) e per una comunicazione veramente efficace?
Per una traduzione, riconoscere le scelte del testo fonte, e attingere alle varietà dell’italiano per creare sapori, colori, livelli corrispondenti. Per la scrittura in generale, modellare la lingua sulle esigenze della situazione comunicativa, del destinatario, del messaggio.
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